Quei delitti che Modena ha dimenticato

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Otto delitti efferati nell’arco di dieci anni, tra l’85 e il 95. Otto ragazze legate agli ambienti della droga e della prostituzione barbaramente uccise da quello che venne chiamato il “mostro di Modena”.  Ma sulle indagini calò subito una fitta nebbia, tra il torpore di una città accusata di indifferenza per la sorte di vittime “considerate di serie b” e i veleni di una Procura rispetto alla quale si parlò di depistaggi e approssimazione nelle inchieste. Che, per un certo periodo, videro coinvolti anche alcuni poliziotti, poi scagionati. A distanza di tanti anni, l’unica verità accertata è che per quelle giovani vite strappate nessun colpevole è stato assicurato alla giustizia. Né, probabilmente, lo sarà mai.

Giusto vent’anni fa, nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1995, veniva assassinata nella sua casa di Rua Freda, nel centro di Modena, Monica Abate. Quello di Monica, all’epoca trentunenne, è l’ultimo di una sequenza di delitti che nell’arco di dieci anni fece otto vittime tra Modena e provincia. Giovani donne tra i venti e i trent’anni che in comune avevano la dipendenza da eroina. E, per sette di loro, la prostituzione come mezzo per procurarsi i soldi necessari per acquistare la sostanza. La prima fu Giovanna Marchetti, appena diciannove, ritrovata il 21 agosto 1985 in una fornace abbandonata, il volto da bambina sfigurato e il cranio fracassato da una grossa pietra ritrovata accanto al cadavere. Le indagini vanno avanti per circa sei mesi concentrandosi su un paio di sospettati, inizialmente un agricoltore della provincia di Reggio che si fa tre mesi di carcere prima di venire scagionato, poi il fidanzato di Giovanna, anch’egli tossicodipendente, pure lui quasi subito riconosciuto estraneo ai fatti. L’indagine si spegne lì, con un nulla di fatto. La morte di Giovanna non sconvolge più di tanto la città.

La polvere sotto il tappeto del benessere modenese

E’ vero, si tratta di un assassinio, che soprattutto in provincia fa sempre scalpore, ma all’epoca le morti per droga sono tutt’altro che infrequenti. Negli anni ’80, la città ha il reddito pro capite più alto d’Italia insieme a Milano. E un numero di eroinomani che i carabinieri quantificano in circa 300, molte centinaia di più secondo la stampa locale. “Qualcuno – scrive La Stampa in un articolo del 3 novembre 1981 – sostiene che Modena sia seconda in Italia, dopo Verona, per diffusione di droga. Molti giovani incominciano a drogarsi perché hanno i soldi. Poi, quando il denaro non basta più, scippano la borsetta o la catenina alle passanti. Centocinquanta scippi nei mesi estivi”. Il titolo del pezzo è di quelli che piacerebbero tanto pure oggi, anche se la paranoia per la “sicurezza” nel più grasso capoluogo dell’ex Emilia rossa adesso si fonda su convinzioni persecutorie differenti: “Scippi, furti e droga pesante. Anche Modena conosce la paura”.

Ma non basta il volto infantile e sorridente di Giovanna a commuovere la città che archivia quasi subito il delitto come uno spiacevolissimo, ma comprensibile, incidente per chi si infila in certi giri da bassi fondi. Marginalità che germogliano un po’ dappertutto e che vengono in fondo tollerate se non sconfinano, se rimangono invisibili e non salgono in superficie a disturbare il torpore della quiete pubblica. E nemmeno le vittime successive di quel decennio di sangue, sempre prostitute eroinomani, producono alcun effetto. Anzi, le indagini si fanno sempre più veloci e, visti i risultati – il niente – sommarie, come vedremo in seguito. Un’inchiesta di appena 30 giorni per Donatella Guerra, accoltellata a morte nella notte dell’11 settembre 1987. Così come per l’amica, Marina Balboni, strangolata meno di due mesi dopo, forse perché, si sospetta, poteva essere a conoscenza di particolari riguardanti l’assassino di Donatella che la notte in cui era salita sull’auto del suo ultimo cliente si trovava a pochi metri a Marina: anche per lei caso chiuso dopo un mese circa di indagini. Poi ancora Claudia Santachiara, strangolata nel maggio del 1989 con un cappio dopo aver lottato disperatamente per opporsi al suo carnefice e ritrovata nuda nel terminal dell’Autobrennero di Campogalliano, cittadina a pochi chilometri dal capoluogo. Per lei indagini di un paio di mesi, l’arresto di un sospettato poi scagionato, e infine il solito nulla di fatto.

Le vittime del presunto Mostro

Per la prima volta si parla di un “mostro di Modena”

A risvegliare un certo interesse per la sequenza di delitti di queste giovani donne è l’allora titolare della nera della Gazzetta di Modena, Pier Luigi Salinaro, oggi in pensione, che comincia nei suoi articoli a collegare tra di loro i vari delitti individuandone la serialità. Dapprima semplicemente collegandola all’ambiente, quello di droga e prostituzione, poi alla sequenza temporale degli omicidi, ogni due anni (in realtà, una forzatura almeno nei casi di Marina Balboni, uccisa subito dopo Donatella Guerra e di Fabiana Zuccarini, assassinata l’8 marzo 1990, dieci mesi dopo Claudia Santachiara). Infine ai luoghi di ritrovamento delle vittime che, collegati l’un l’altro da una serie di linee, formerebbero secondo Salinaro un pentacolo, figura geometrica considerata in alcuni ambiti esoterici un simbolo demoniaco, anche se la pista satanista non è mai stata presa seriamente in considerazione dagli inquirenti. Prende vita così il “Mostro di Modena”, il fantomatico serial killer che finalmente comincia a suscitare un certo interesse, almeno nella seconda metà degli anni ’90, perché il riconoscimento dello status di “seriale” per l’assassino, o gli assassini, delle otto ragazze fa molto romanzo giallo.

Ma è davvero esistito un unico serial killer?

“Il mostro di Modena l’ho inventato io” dice oggi Salinaro, lasciando così intendere di esser stato il primo a ricucire in un’unica trama la serie di delitti che invece la Magistratura ha sempre faticato ad attribuire alla stessa mano. Anche perché ogni indagine è stata presa in carico di volta in volta da un magistrato diverso, senza mai creare un pool fino alla seconda metà degli anni ’90 quando il caso dell’ultima vittima, Monica Abate, ha fatto scoppiare per qualche mese un polverone politico mediatico che, se all’atto pratico non ha prodotto nulla visto che tutti i delitti restano ancora oggi impuniti, almeno ha acceso l’interesse dell’opinione pubblica. E, come vedremo in seguito, messo temporaneamente sotto accusa gli stessi inquirenti. Poca cosa. Ma questo è stato l’unico risultato – se così si può chiamare – raggiunto a distanza di vent’anni dall’ultimo omicidio della serie. Per la quale, l’ipotesi del killer seriale è sempre rimasta tale, come riportato dallo studio comparativo del 1998 basato sulle autopsie delle vittime realizzato dal professor Francesco De Fazio, criminologo di fama mondiale e allora Direttore del Dipartimento di medicina legale del Policlinico di Modena, secondo il quale – si legge nel testo – non sarebbe possibile delineare una “tipologia unitaria d’autore, non bastando pertanto la tipologia pressoché unitaria delle vittime a configurare l’ipotesi di un unico autore, che tuttavia – concludeva De Fazio – non può essere esclusa in assoluto”.

Presunti depistaggi e sicure superficialità nelle indagini

A smuovere un po’ le acque pareva potesse essere l’ultimo omicidio, quello di Monica Abate appunto, consumato in circostanze parecchio diverse dalle altre. Monica è stata uccisa a casa propria, luogo che non utilizzava per prostituirsi. L’omicida, o gli omicidi, che sicuramente la ragazza conosceva, ha tentato di simulare una morte per overdose piantando un ago nel braccio della giovane mentre in realtà l’autopsia ha certificato la morte per soffocamento. L’assassino le ha premuto la bocca e il naso con le mani fino ad ucciderla. Sul pianerottolo di fronte alla porta di casa vengono trovate delle macchie di sangue che l’esame del dna identifica come appartenente a Laura Bernardi, all’epoca convivente da breve tempo dell’Abate e prima a lanciare l’allarme dopo aver scoperto il cadavere nel pomeriggio del 3 gennaio. La ragazza viene inquisita per omicidio volontario. Secondo la ricostruzione della Procura, la Bernardi si è ferita mentre, con altre persone, uccideva l’amica. All’udienza preliminare del 18 novembre 1997 però, il gip Francesco Maria Caruso proscioglie la donna dalle accuse, con una sentenza che dà il via a mesi di polemiche. Scrive infatti Caruso: “Quello di Monica Abate è un omicidio che forse si sarebbe potuto risolvere e che forse si potrebbe ancora risolvere a partire dai dati esistenti e dalla loro valorizzazione investigativa. Purtroppo errori e interferenze hanno largamente compromesso un’indagine assai delicata, che meritava di essere trattata con estrema cautela. Allo stato, agli inquirenti non rimane che riprendere il filo e tentare di dipanare la matassa”.

La polizia sotto accusa

In pratica – commenta il giornalista di Rai Emilia-Romagna Luca Ponzi nel suo libro “Mostri normali”, quello di Caruso è un atto d’accusa contro la polizia: “il giudice ha lasciato intravedere uno scenario inaspettato per Modena, un gruppo di poliziotti avrebbe avuto rapporti con tossicodipendenti, sfruttandole, cedendo loro droga, ottenendo in cambio informazioni e, soprattutto, prestazioni sessuali. Per questo – continua Ponzi – il gip ha restituito gli atti al Pubblico Ministero, indicando in maniera piuttosto esplicita da che parte cercare. Fin dai primi interrogatori (…) erano emersi i nomi di due agenti, in servizio alla centrale operativa e alle volanti, che conoscevano la ragazza”. I due poliziotti vengono messi sotto accusa dal pool di tre magistrati che viene formato per la prima volta, coordinato dal Sostituto Vito Zincani inviato da Bologna nel giugno del 1998 dal Procuratore generale. Oltre ai due poliziotti, finiscono nel registro degli indagati due piccoli spacciatori. A tutti e quattro viene prelevata della saliva per effettuare l’esame del dna.

Alle pesanti accuse di Caruso risponde dopo mesi, con un intervista rilasciata al Carlino il 25 aprile 1998, l’ex sostituto procuratore della repubblica Alberto Pederiali, al tempo in servizio non più a Modena ma a Trento, che per primo si era occupato dell’inchiesta Abate. Pederiali respinge al mittente le accuse di mancanze e superficialità nell’inchiesta. Tornando a puntare il dito contro Laura Bernardi, l’amica di Monica: “nel corso dell’indagine l’abbiamo sentita sei o sette volte ed è sempre caduta in contraddizione. Per esempio solo alla fine raccontò di essersi bucata sul pianerottolo della casa di Monica Abate dove poi fu trovata la traccia del suo sangue”. Per Pederiali fu fatto tutto ciò che c’era da fare: “Sono stati approfonditi tutti i legami sospetti dei poliziotti (…). Sul loro presunto coinvolgimento nel delitto non è emerso nulla. I due agenti indagati inoltre hanno entrambi alibi per la notte dell’omicidio”. I risultati del successivo test del dna dei poliziotti effettuato dal Reparto d’investigazioni scientifiche, il Ris di Parma, acquisiti dalla procura nel novembre 1998 scagioneranno i due: non erano nella stanza. L’eventualità di un coinvolgimento di elementi deviati delle forze dell’ordine, oltre a essere un’ipotesi investigativa almeno fino ai risultati del test del Ris, intriga la stampa e l’opinione pubblica. Anche perché gli anni dei delitti del “mostro di Modena” coincidono con quelli delle azioni criminali dalla banda della Uno Bianca dei tre fratelli Savi, due dei quali erano poliziotti di base proprio nella vicina Bologna. E, nel 1998 è ancora fresca l’eco della cattura dei tre e dei loro complici avvenuta nel novembre 1994.

“Gli omicidi sono maturati nello stesso giro di poliziotti corrotti”

La temporanea ripresa delle indagini ridà soprattutto fiato alla disperazione di Romana Caselli, mamma di Monica, quella che insieme al papà di Fabiana Zuccarini, Ermanno, ha lottato più a lungo per avere giustizia, senza mai ottenerla. Negli anni, Romana ha cercato in tutti i modi di tener viva l’attenzione sull’omicidio di sua figlia e delle altre ragazze assassinate dal presunto mostro, partecipando a varie trasmissioni televisive, da “Telefono giallo” a “Moby Dick”, o rilasciando interviste di fuoco a vari giornali. Come quella dell’aprile del 1998 al Messaggero, dove Romana lancia pesantissime accuse. “Io non ci credo all’ipotesi di un serial killer modenese – dichiara nell’intervista rilasciata all’inviato Enzo Pasero – però sono convinta che tutti e otto gli omicidi siano maturati nello stesso giro, un giro di poliziotti corrotti che fanno i soldi con la droga e la prostituzione”. Perché, scrive Pasero, secondo la Caselli alcuni poliziotti avrebbero “costretto Monica con angherie e persecuzioni ad accettare la loro protezione, in cambio di qualche dose di roba buona. Che lei si iniettava accuratamente sotto le unghie dei piedi per non deturparsi le braccia”. Nella stessa intervista Romana avanza qualche dubbio anche sull’estraneità dell’amica di Monica, Laura: “Mi aveva telefonato dicendo di essere rimasta senza chiavi, e che era sicura che Monica era in casa, però non apriva. Io ero andata di corsa, le avevo passato le chiavi dal finestrino mentre parcheggiavo l’auto. E non avevo ancora finito di parcheggiare che lei era già scesa, gridandomi di chiamare la polizia: possibile che avesse già fatto in tempo a salire tre piani a piedi, perché non c’era ascensore, aprire la porta e capire subito che c’era bisogno della polizia e non di un’ambulanza?”.

“Della morte di quelle ragazze non importa a nessuno”

Ma la mamma di Monica non lancia solo, da subito, accuse precise. Ce l’ha con la città intera. A suo dire, in qualche modo “complice” del pressapochismo delle indagini (“manchevolezze e superficialità nella conduzione delle fasi più urgenti, quindi il più delle volte decisive”, furono rilevate e segnalate anche dalla successiva relazione di Zincani al Procuratore generale) perché riguardanti vittime di serie b, ragazze drogate e tossicodipendenti. E in un articolo su La Stampa del 19 gennaio 1995, afferma: “la loro morte non commuove, la gente dice: tanto erano drogate e poco di buono. Nessuno si allarma, tutti pensano: i miei figli sono al sicuro, tanto il mostro ammazza solo quelle là”. Gabriele Romagnoli, autore del pezzo, conclude con quello che è un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dell’intera comunità modenese: “a mettere insieme gli otto casi, per quel che ne resta negli archivi, i punti di contatto affiorano, l’ombra del serial killer si allunga, ma l’unico elemento comune che si delinea, netto e forte, è questo: quando a Modena ammazzano una prostituta eroinomane gli inquirenti non perdono il sonno e la città non trema”.

Sono passati vent’anni da quella notte di gennaio del 1995. Da allora, il presunto mostro non ha più colpito e, anche se ancora a piede libero, ha capito che forse il gioco stava diventando troppo pericoloso. Dopo le polemiche successive alla sentenza di Caruso e al presunto coinvolgimento di elementi deviati della Polizia di Stato, attizzate dall’allora segretario del PDS Massimo Mezzetti e l’ex senatore, sempre PDS, Luciano Guerzoni che chiesero conto di presunte interferenze e depistaggi nelle indagini (per altro senza nulla ottenere a parte un po’ di rumore sui giornali), pian piano il “mostro di Modena” è finito nell’oblio. Come le varie inchieste che hanno riguardato le otto giovani vittime. L’ultimo a cercare di tener viva una vicenda che ha visto la fine di giovanissime vite ancora senza giustizia, è stato l’ex consigliere del PD Fausto Cigni, con un’interrogazione presentata in consiglio provinciale nel 2013. Un breve interesse suscitò anche la pubblicazione del libro di Luca Ponzi, nel 2012. Ma tutto si è esaurito con qualche articolo, l’ennesimo, sui giornali locali.

Tra i pochi rimasti a chiedere una giustizia che probabilmente non arriverà mai, c’è la mamma di Monica Abate, Romana, che a piedi o in bicicletta incontro spesso in centro a Modena. La si riconosce subito, assomiglia incredibilmente a sua figlia. Giura di non aver smesso di voler cercare i colpevoli della morte di Monica. E’ ancora piena di rabbia, comprensibilmente. Senza giustizia, non può esserci pace. Per Romana, ma nemmeno per questa città, anche se da tempo ha smesso di interessarsi a una ragazza – e a tutte le altre come lei – uccisa proprio in questo giorno, vent’anni fa. E il cui assassino, o gli assassini, magari in questo momento si starà bevendo tranquillamente un caffé in piazza Grande.

Davide Lombardi

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